Paolo Griffa, creativo e visionario

Un po’ creativo, un po’ visionario. Talvolta veste i panni dell’abile pasticcere, perché è partito da lì ma resta un giocherellone instancabile con la faccia da bravo ragazzo. Cuoco e chef stellato. È tante cose il giovane Paolo Griffa, classe 1991, alla guida del Ristorante Petit Royal, insegna gastronomica all’interno del Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur, insignito della Stella Michelin.

Per Pasqua, Paolo, ha lanciato una bomba: Easter Bomb, una creazione pasquale di Cucina Ludica, sviluppata a partire da un concetto, associato alla strumentazione fornita: il martello di legno valdostano, tornito a mano. In altre parole, un uovo di cioccolato da prendere a martellate.

Nel mentre ha curato la stesura di un libro che prende il nome dal suo ristorante, all’interno del quale c’è tutto il suo mondo, non solo ricette e fotografie, anche e soprattutto coordinate di una visione ben precisa. La sua.

Chef, come si sta in Val d’Aosta?

Si sta bene. Bisogna però abituarsi alla stagionalità, che qui si sente in maniera molto più forte che in altre parti d’Italia. In inverno tutto è ricoperto di neve, c’è molta vita mondana, ma sul fronte cucina c’è parecchia austerità. In estate chiaramente è tutto più vivo, ma bisogna sapere come muoversi. Dovremmo ricordarci gli insegnamenti delle nonne, ossia mettere via il più possibile nella bella stagione, per poterlo utilizzare durante il periodo freddo. 

In tempo di Covid, com’è cambiato il suo lavoro?

È cambiato tutto. Non abbiamo il bacino d’utenza di una grande città. Le persone in Valle d’Aosta sono poche, quindi bloccare il movimento tra regioni per noi è stato davvero penalizzante. Durante il week end si lavora di più, in quelle fasi in cui è concesso muoversi verso le seconde case. Nel primo lock down, quello duro, da noi la situazione era tranquilla, in strada non c’era nessuno e le code al supermercato viste al Tg, erano un miraggio. 

La sua Pasqua è “esplosiva”. Da dove arriva l’idea di un uovo da prendere a martellate?

Il fatto di fare una cucina ludica e interattiva è parte del nostro DNA. In passato abbiamo avuto un taglio “cartoon”, proprio perché ci piace far tornare bambini i nostri ospiti e farli divertire. Nel 2015 avevamo prodotto un bombolone a forma di bomba ripiena che ha raccolto un grande successo al Salon du Chocolat. L’idea dell’uovo di Pasqua è nata dalla richiesta stessa dei nostri clienti ed abbiamo giocato con il concetto di esplosione che è anche evocativo del gusto stesso del dolce. In bocca è una esaltazione di sapori perché abbiamo lavorato con gli zuccheri effervescenti che fanno sì che il cioccolato si sciolga subito, per poi iniziare a scoppiettare sulla lingua. Come nota, alla degustazione, abbiamo inserito la frase “tapparsi le orecchie durante l’assaggio”, perché effettivamente rimbomba in bocca. 

Per la sua Easter Bomb da cosa è partito?

Dall’idea che scoppiettasse e dal gesto istintivo di voler rompere l’uovo, che è un retaggio del bambino che ero e che accomuna tutti quando ce lo troviamo di fronte. La forma a bomba segue il significato che volevo dare al dolce.

La sua cucina ha delle coordinate ben precise, tra cui il gioco. Come si arriva a questa forma?

Non è così facile, né immediato. Così come non è facile il mestiere del comico: non è semplice far sorridere e far divertire. Non volevamo limitarci a far rompere un uovo con un martello, doveva esserci qualcosa di più, una progettualità, un senso profondo. E l’interazione tra la sala e il cliente è fondamentale anche in questo caso per fare in modo che il concetto venga compreso al meglio.

Quando ha capito che poteva giocare ed essere preso sul serio?

Molti ancora non capiscono questo approccio. Diventa sempre più difficile stupire, dal momento che oramai abbiamo visto tutto. La difficoltà nasce proprio da questo.

Un’altra cosa che la contraddistingue è il rigore. Come si sposa con la parte creativa?

Si tende a pensare che siano due estremi, ma la creatività è figlia della concretezza. Mi piacciono molto la matematica, la chimica e la fisica applicata. C’è bisogno di un approccio senza variabili affinché l’effetto sia riproducibile, in maniera rigorosa e non generato in maniera fortuita. 

Ha da poco presentato l’ottava edizione del menu “declinazioni”. Cosa c’è dentro?

Il primo menu “declinazioni” era molto piemontese, perché risentiva delle mie origini ed ero appena arrivato in Val d’Aosta. Col tempo è diventato più territoriale, perché la gente che viene qui vuole prodotti locali che non trova in altri posti. Dall’inizio di questo percorso sono cambiate tante cose. Prima ero più concentrato sulla versatilità delle singole materie prime, lavorando su tecniche di preparazione sempre diverse e su menu mono ingrediente. E questo non è di semplice lettura per un cliente che davanti ad un “menu patata” potrebbe pensare di mangiare patate bollite o fritte tutta la cena. Abbiamo capito con il tempo che questo approccio era troppo concettuale, così abbiamo aggiunto le “declinazioni”, cioè elementi che andassero ad arricchire le nostre degustazioni. Come i colori, che segnano il passare delle stagioni, lavorando su menu monocromatici. Abbiamo aggiunto la matrice del viaggio, partendo dal concetto che ci sono ingredienti come il pollo che si mangia ovunque nel mondo ma in maniera sempre differente. In quella declinazione di menu, si servono materie prime locali trattate come se fossero servite in altri continenti. La nostra cucina è sempre stata molto visual, ci tengo ai colori e alle forme. Ecco che è nato il menu dedicato all’arte. Da lì in poi abbiamo avuto evoluzioni continue, senza mai rimanere legati a dei piatti che si ripetono.

Ho letto il suo libro. Parla del cibo come di un piacere da progettare. In che termini?

È bella la fase di studio, capire il come si raggiunge un obiettivo. Il processo creativo è la parte più interessante. È quella parte del lavoro che non ti stanca mai, al contrario del ripetere la preparazione di un piatto. Non è il prodotto finale, ma tutta l’operazione precedente, ad essere stimolante. 

Quanta tecnica nel suo libro e quanta tecnologia. Come è cambiata la cucina dai suoi inizi?

È cambiata radicalmente. Quando ho iniziato erano gli anni di El Bulli e di Ferran Adrià. Anni di sperimentazione in cui la tecnologia alimentare ha fatto passi da gigante e continua a farne ancora oggi. Contestualmente il mondo della chimica e della fisica hanno preso la loro posizione in cucina, il che ha aperto altri canali, tecnologie e competenze. Oggi abbiamo utensili come i frullatori a ultrasuoni per le emulsioni, o il rotovapor per le estrazioni di olii essenziali. Oggetti prestati agli chef, ma che appartengono più ai laboratori.

Un capitolo del libro è dedicato alla fermentazione. In quale momento il cliente ci ha a che fare?

Nonostante gli abbia dedicato un capitolo del libro, non le attribuisco un peso specifico. È una tecnica che utilizzo in maniera trasversale nei menu. Mi aiuta ad ottenere determinati sapori e consistenze. Non è la protagonista, piuttosto un gregario. Ma ugualmente fondamentale in cucina.

Il Foraging oggi va di monda. Parliamo di uno stile di vita. Proprio a questo dedica un capitolo del suo libro. Da quanto tempo le erbe spontanee la appassionano?

Da sempre, le ho studiate molto in Francia, dove ho imparato a conoscerle a fondo. Penso siano la massima espressione di un territorio. Non siamo noi a decidere come e dove farle crescere, possiamo giusto raccoglierle. Non è possibile addomesticarle o replicarne il sapore. Visto da fuori l’immagine dello chef che passa le giornate nei campi, immerso nella natura, è molto bucolica, ma di fatto è un impegno costante durante l’anno, che ci sia il sole, il vento o la pioggia. Poi le erbe vanno pulite e stoccate. E spesso bisogna percorrere molti chilometri perché è vero che la Valle d’Aosta è piccola, ma per passare da una valle all’altra, a volte, ci vogliono anche 40 minuti.

Per lei il detto “non esistono più le stagioni” non vale. Come le interpreta nei suoi piatti?

Ricordo una consulenza fatta ad Hong Kong in cui chiesi ad uno chef quali prodotti utilizzassero in quel momento dell’anno. Lui mi rispose che in qualunque parte del mondo c’era disponibilità dei prodotti di cui avevamo bisogno. Questo significava che la stagionalità era sopperita per far posto alla globalizzazione. Il che per me è inquietante perché significa appiattire la qualità dei prodotti e perdere quel senso di attesa di una stagione o di un mese preciso dell’anno. Preferisco rinunciare alle comodità ma non far sfiorire il fascino dell’ingrediente, da cogliere nel suo momento migliore. 

Come è fare i conti con la stagionalità ferrea di una località di montagna come Courmayeur?

Non mi aspettavo tanta austerità in inverno. Sapevo sarebbe stata dura, ma l’inizio è stato davvero traumatico. Con il tempo ho capito come organizzarmi, basta essere elastici mentalmente. Ogni anno impari qualcosa in più, ti adatti e migliori. 

Come nasce un piatto? Si parte dall’estetica? Dal gusto? Da un profumo?

L’ispirazione può venire da una passeggiata, da un film al cinema, da un museo, da un odore o da un libro. O da un colore, come spesso capita. La scintilla parte però sempre dal prodotto che voglio utilizzare. Intorno, gravitano poi tanti fattori, come hai visto utilizzare quel prodotto da altre persone o il sapore che aveva all’interno di una ricetta. Alla fine, subentrano la tecnologia e l’arte, che determinano quale consistenza e quale forma avrà il piatto. 

Servizio in sala. Quanto conta nell’economia dell’esperienza che un cliente fa al ristorante?

Direi il 50%. È fondamentale, la cucina senza un buon servizio in sala non può esistere.

Il pane, simbolo di civiltà, è stato protagonista di questo anno pandemico, oltre che di una parte del suo libro. Com’è il suo cestino del pane?

Ho scelto di fare una pagnotta sola. Inserirne troppe tipologie significa dargli eccessiva importanza e togliere il focus dalla degustazione. Poi se sono ben fatti finisci per essere sazio a metà pasto. Quindi abbiamo preferito sfornarne un solo tipo con un gusto preciso, che richiede tre giorni di preparazione e lo serviamo col burro in accompagnamento. Consigliamo di assaggiarne un pezzo all’inizio del percorso così da decifrarne il gusto, per poi usarlo nel momento che ognuno reputerà il più giusto, durante il menu. A volte poi capita che utilizzi pani particolari legati ad un piatto specifico, ma sono eccezioni.