Arriva in Italia Tahir Lekesiz, il gangster gourmet e senza macchia

Arriva in Italia Tahir Lekesiz: da settembre in streaming su Mediaset Infinity la nuova serie turca My name is Farah.

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Tahir Lekesiz

Immaginate un invito a cena, desiderato e atteso da tanto, in uno dei ristoranti stellati di Istanbul: ambiente raffinato, cucina contemporanea, servizio impeccabile. E arriva lui, Tahir Lekesiz, dannatamente sexy, elegantissimo e bello, che per l’occasione ha riservato l’intero ristorante per voi e si è pure messo ai fornelli. Praticamente, il sogno a occhi aperti delle fan del protagonista della nuova serie turca che sta per sbarcare in Italia su Mediaset Infinity, Adım Farah, che per l’occasione cambia nome in My name is Farah.  Il dannatamente sexy, elegante e bello è Tahir Lekesiz, alias Engin Akyürek, che per giunta è anche ironico, sensibile, romantico, con un’indole innata alla paternità. Insomma, l’uomo perfetto. Se non fosse per quell’unico neo, che forse in realtà ne accresce il fascino, l’essere cioè un gangster, il braccio destro di uno dei più pericolosi boss della mafia turca. Un criminale, insomma, a dispetto del suo nome e cognome che invece in turco significano puro e immacolato. Una scelta, quella degli autori, come sempre non casuale. Perché Tahir Lekesiz è l’incarnazione dell’ossimoro perfetto, l’uomo delle tenebre dall’anima immacolata. Di più: Lekesiz è l’epitome del capro espiatorio, torturato e condannato alla vita criminale da un destino che non gli ha nemmeno dato modo di capirne il perché. Un dramma shakespeariano all’ombra degli intrighi e delle faide fra le famiglie mafiose turche. Alla maniera di Engin Akyürek.

Un personaggio da apprezzare in controluce

Una dizi, puro intrattenimento, invenzione narrativa, nella quale la storia si manifesta e si nasconde al tempo stesso, diventando enigma da svelare, se non velata menzogna.
Il profilo di questo personaggio, che a settembre arriva sugli schermi italiani, nello stupore del fandom italiano dell’Akyürek, scalpitante di vederlo finalmente parlare in italiano (con possibilità per le puriste di seguirlo in lingua originale), si svela e si apprezza in controluce, nell’accostamento del bianco al nero, di luci e ombre, di purezza e colpevolezza, che sono l’essenza del suo essere ossimoro, mostrandoci alla fine una realtà diversa da come la si era immaginata. L’inganno, insomma, come cifra narrativa di una serie che ribalta i cliché e oserei dire sbeffeggia la “mitologia” mafiosa. A produrre l’ambiguità e le menzogne della storia sono il linguaggio, le parole, la storia personale dei protagonisti, l’ironia, i messaggi.

Il ristorante, il luogo dove tutto può accadere

Il ristorante, ad esempio. Epicentro  di tutta l’evoluzione narrativa: non a caso l’ingresso nella serie di Tahir Lekesiz avviene proprio in un ristorante, ambìto e conteso dal figlio legittimo del boss, il cocainomane e scapestrato Kaan Akıncı e il figlio “affiliato”, affidabile braccio destro del capo dei capi, Tahir appunto; non a caso, nello stesso ristorante e nella stessa scena, l’incontro con la protagonista che dà il nome alla serie, Farah Erşadi, interpretata da Demet Özdemir, da tempo già di casa nel palinsesto Mediaset; non a caso l’episodio clou  da cui si sviluppa tutta la storia, un omicidio a cui assiste involontariamente Farah, avviene in un ristorante.
Luogo iconico, che nello scorrere della storia si trasforma dall’affare su cui si è allungata la manus longa della criminalità, a simbolo del riscatto, della rinascita, dell’emancipazione. Non prima di regalarci una scena memorabile che non sfigurerebbe in una riedizione de Il Padrino in salsa turca, mix perfetto fra tensione e ironia: il pranzo fra capicosca, con l’indimenticabile e sbeffeggiante “afiyet olsun” (buon appetito) di Tahir, cerimoniere elegantissimo almeno quanto perfido e spietato.

Una scena indimenticabile

Per non dire della scena in cui Farah, clandestina donna delle pulizie che in realtà scopriamo essere un medico, è costretta a ricucire il gregge di scagnozzi moribondi di Tahir Lekesiz dopo una efferata faida, con gli arnesi che la cucina di un ristorante le mette a disposizione. Ironia e sarcasmo palpabilissimi, che subito dopo consegnano la scena a un’altra memorabile sequenza, questa volta ad alto grado di testosterone, con un Tahir a torso nudo che impavido si fa cucire una ferita a carne viva. 
Ma la scena che più di tutte simboleggia questo voler irridere quel mondo e la celebrazione seriale della violenza criminale tanto di moda in tv, è quella in cui Lekesiz e compari ballano l’halay, la tipica danza tradizionale che si usa ballare ai matrimoni, per non spaventare il piccolo Kerimşah (piccolo grande protagonista della serie!) camuffando quella che invece è una resa dei conti in piena regola.  Per non parlare dei suoi due gorilla personali, che più che una coppia di spietati sicari sembrano la reincarnazione di Stanley e Olio.

Ribellarsi al sistema

Ma non è solo l’ironia a mandare in frantumi quel sistema criminale, che lo stesso intreccio di storie condanna senza appello mostrandone il lato più vulnerabile, il suo essere viatico inevitabile verso la solitudine. Soli, in fondo, finiscono i veri cattivi di questa storia. Tahir si ribella al sistema, alla vita a cui il destino lo ha voluto condannare, grazie all’incontro con una donna, che cambierà per sempre la sua vita, Farah, appunto.  Personaggio chiave di tutta la storia, interpretato dalla Özdemir attrice molto amata anche in Italia, Farah è una donna straordinaria, fuggita dal suo paese, l’Iran – di cui ci svelerà le dolorose contraddizioni –  che vive a Istanbul da clandestina facendo le pulizie per curare il figlio affetto da una gravissima malattia del sistema immunitario, interpretato da un talentuoso  Rastin Paknahad. Farah è fragile e forte al tempo stesso, intelligente, fiera, coraggiosa, disposta a tutto pur di proteggere il figlio. Simpatia e sagacia sono invece le doti con cui il piccolo Kerimşah riesce a fare breccia nel cuore del Tahir Lekesiz, che si scioglie come il burro su una fetta di pane appena tostato.
Tahir, invece, ha fatto breccia nei cuori del fandom di mezzo mondo con altre doti. Ci cucina a puntino, col fascino dei suoi occhi e la profondità della voce, come sa fare quando si mette ai fornelli,  con la stessa sapienza con cui impasta i manti (i celebri ravioli turchi) o sfiletta tagli di carne pregiati.  Un gangster gourmet amante del bello e del buono, come potrebbe esserlo un piatto di spaghetti, da accostare all’ombroso Lekesiz nel gioco di questa rubrica.

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Gli spaghetti, neri come Lekesiz

Avete presente gli spaghetti neri? Non quelli impastati col nero di seppia e nemmeno con la farina di riso Venere, tutt’al più penserei agli spaghetti di fagioli neri, ultima versione ultra salutista di uno dei capisaldi della cucina di casa nostra e che  – ahinoi – di Cosa nostra ne è uno degli stereotipi più stantii. Gli spaghetti, tuttavia, rimangono il piatto esotico più cucinato al mondo, complici anche le numerose varianti, dalle più storiche alle più recenti. 
Come quelli, appunto, neri, gourmet e salutisti, rigorosamente di fagioli neri, dunque nutrienti senza appesantire, perfetti per abbinamenti insoliti, capaci di stupire chi si accinge a gustarli.
Esattamente come il Tahir di Akyürek: una certezza, come può essere un piatto di pasta che non delude mai, sorprendente in questa versione del gangster che proprio non ti aspetti.  

Una scena emblematica

E proprio gli spaghetti neri li ritroviamo in una delle scene più emblematiche del carattere di questo personaggio, che ci sa fare ai fornelli almeno quanto con le pistole e soprattutto con l’arguzia. Intelligente, furbo, temerario, Tahir prova a prendere le distanze dal suo capo, Ali Galip, con un tranello che ordisce alla perfezione. A tavola –  spaghetti neri saltati in padella e menu vegetariano (per ironia il sanguinario boss non mangia carne!) preparati per l’appunto da Tahir –  si consuma il duello di sguardi e dialoghi, sugellato dal mancato baciamano finale che ogni sottoposto deve al suo padrone: è il trionfo di Davide su Golia, che nel meccanismo dell’empatia così caro alla recitazione dell’ Akyürek ci fa gongolare di soddisfazione.

La complessità del personaggio

Elegante, in abito pied de poule o  dolce vita nero,  Tahir è destinato ad allungare l’elenco dei gangster  iconici per classe e recitazione: dal David “Noodles” Aaronson di Robert De Niro in C’era una volta in America (e noodles  significa, guarda un po’, spaghetti…) al Carlito di Al Pacino in Carlito’s Way o al suo  Tony Montana in Scarface, per finire al capo dei capi, il Vito Corleone di Marlon Brando, padre di tutti i gangster. E come per ognuno di questi personaggi, resi indimenticabili da una interpretazione che ne ha curato ogni piccolo dettaglio, dal vezzo allo stile appunto, anche l’ Akyürek studia con la sua nota cura maniacale ogni minuscolo elemento per creare il gangster che non ancora non avevamo visto. Dinoccolato, schiena curva, frangia da cattivo contemporaneo, sguardo accigliato, labbra imbronciate, elegante, ironico, irriverente, chic, col tic di allargare il collo del dolcevita nei momenti di tensione, ci  regala nel corso di questa serie una carrellata di sequenze iconiche, come la smitragliata in doppiopetto nel prato della villa del boss o l’ingresso plateale e provocatorio alla presentazione della società fra  la moglie del vecchio capo e il suo rivale.

Un mix

Un mix incredibile di ingredienti che ci fanno gustare la complessità di un personaggio che ci fa ridere e piangere, sognare ed arrabbiare, a cui l’Akyürek dà vita con l’intensità e credibilità che gli appartengono, mettendo in scena il dramma della vita. Una vita che si capovolge letteralmente grazie a Farah e Kerimşah, la cui forza è nella loro involontaria capacità di trasformare l’oscurità in luce, accompagnando Tahir lungo un percorso nel quale metterà in discussione sé stesso e la sua  vita, sperimenterà la speranza e  la bellezza, vivrà la sofferenza dell’amore ma anche i sentimenti a esso collegati. Una serie che non è però romantica tout court, poiché mescola più generi, trasformandosi di fatto in un’“anti-dizi”, poiché della tradizione seriale turca ha molto poco, in primis il tempo lento delle scene.  E poi linguaggio, intreccio, complessità narrativa ne fanno una serie diversa, nella  quale il dipanarsi della storia ci mostra  in apparenza quello che in realtà non è, dove i ruoli fra buoni e cattivi si confondono e si invertono, per poi farci arrivare piano piano alla verità che si cela nella storia personale di ogni protagonista.
Una dizi diversa, inaspettata, che ti sorprende. E che ti appaga. Come un buon piatto di spaghetti.