Davide Oldani

Il suo sorriso accogliente ed importanti insegnamenti di vita lo hanno portato nell’Olimpo dell’alta ristorazione mondiale. Pamela Raeli ci racconta l’incontro con Davide in un’intervista “confidential”.

Una calda accoglienza al D’O, il ristorante di Davide Oldani a San Pietro all’Olmo, Cornaredo, Milano. Al mio ingresso già avevo la sensazione che non sarebbe stata la solita intervista e così è stato. Sono rimasta colpita da ogni dettaglio del locale, ma soprattutto dal carattere deciso e perfezionista del padrone di casa, uomo carismatico e vero.

Comincio subito con una domanda molto personale. Come il passato e il tuo bagaglio familiare hanno influenzato la tua vita e la tua cucina?

Credo che la famiglia sia la base della costruzione della carriera di una persona. Nel mio caso la base è stata la mamma che ha saputo gestire i miei momenti difficili. Il mio è un lavoro duro, specialmente quando sei un ragazzo. Lei ha fatto la mamma vera; ricordo ancora che quando lavoravo dal Signor Marchesi lei era quella che il mattino mi svegliava e mi aiutava a non mollare. A 18 anni avevo in mente il calcio, la cucina la vedevo quasi come un divertimento. In quel periodo dovevo andare a scuola (e dovevo portare a casa i voti) e lavorare e non era facile: la mamma invece di farmi abdicare mi spronava con la dolcezza e la pazienza che ogni mamma ha nei confronti del figlio. Lei mi ha fatto innamorare del mestiere. Ho dovuto abbandonare il calcio  per un problema fisico e ho imparato che “nella vita bisogna sempre avere un sogno di scorta, nell’immediato puoi così fare un cambio”. Questo lo insegno ai miei ragazzi. I sogni sono gratis, non costano nulla. Non sopporto di dover pensare di dover fare qualcosa uguale per tutta la vita; per questo mi creo sempre motivazioni nuove. Ad esempio qui al D’O abbiamo disegnato noi tutti i tavoli, le sedie, i biccheri e le posate. L’ ho fatto perchè il mio lavoro è accoglienza, ospitalità, convivialità. Chiunque entri al D’O deve trovare un sorriso che accoglie, non solo il mio, ma quello di tutta la mia squadra. Questa è proprio la chiave dell’insegnamento appreso prima dai miei genitori, poi dallo Sport che mi ha insegnato il valore della squadra. Una frase che porto nel cuore è quella che Gualtiero Marchesi disse a mio padre: “Questi ragazzi sono come spugne che assorbono, assorbono e un giorno rilasceranno”. Lo sport, il calcio che ho vissuto intensamente, gli insegnamenti familiari sono serviti a tenermi in piedi e mi hanno insegnato una cosa fondamentale, il rispetto per gli altri. Due massime mi guidano: la prima è una frase di Michael Giordan “Condanno chi non prova, non chi sbaglia” e l’altra  di Steve Jobs “Bisogna essere affamati”. Cerco ogni giorno di trasmettere ciò ai miei ragazzi; nel mio ristorante tutto è costruito con le risorse umane. Sono convinto che con due idee diverse si riesca a crerae un uomo. Io e Gordon Ramsay in un momento lavorativo in cui lavoravamo insieme, abbiamo visto 23 cuochi saltare e arrendersi. Gordon ha ripreso quello che facevamo allora. Fai esperienze nella vita, non per copiare o ripetere, ma per assorbire e farti un’idea e poi giocati l’idea.

Interno del ristorante D’O – © Beppe Raso

Ti definisci chef o cuoco?

Sicuramente cuoco. Se leggi il mio libro “Cuoco andata e ritorno” è tutto chiaro. La prima cosa da fare per le persone è parlare in maniera chiara, comprensibile, non il politichese, perchè chi ti sta davanti deve capire e così facendo ti può rispondere. Se tu hai una “one way” per parlare dove mimetizzi, nascondi, fai e non ti fai riconoscere per quello che sei è l’inizio della fine. Chef significa capo non cuoco. Io sono chef, il mio mestiere è il cuoco che è un’altra cosa. Se tu poi vuoi tradurre fai capo-cuoco.

Ostrica Prestige Des Mers, Piselli, Mandorla e Pepe Agrumato

Che rapporti hai con la stampa?

Molto buoni perchè faccio parte del pensiero di una stampa che non è proprio quella dei blogger o dei social, molto moderna, ma apprezzo la stampa che mette faccia, nome e cognome, che si fa riconoscere per l’idea che ha e che scrive. Devo dire che passano gli anni e quindi apprezzo sempre di più questa tipologia, senza disprezzare quella più veloce tipo blogger, social. Ormai tutti possono scrivere e recensire e questa è democrazia. Anche il Vostro settore ha subito negli ultimi dieci anni un forte cambiamento, quindi bisogna accettare la parte buona di questo cambiamento.

Cosa deve avere una rivista per piacerti?

Deve fare cultura, deve attrarre esteticamente e deve trasmettere notizie comprensibili e reali.

Credo che la prevenzione parta dall’alimentazione e per questo a Food and Travel Italia si è affiancato Food and Travel Benessere nella versione digitale. Tu che ne pensi?

Credo anch’io che la cucina sia la base della grande prevenzione. Sono molto vicino alla Fondazione Veronesi. Mangiando bene si possono spendere anche molti meno soldi nelle cure, si può avere una vita più felice e bella. Credo anche che dopo la cucina ben fatta, di equilibrio, servano lo sport e il movimento. Un’altra mia convinzione è che la cucina debba essere per tutti. Nel 2003 ho cominciato a parlare di cucina POP. Sono felice che Expo abbia gridato al mondo che la cucina deve essere accessibile, ‘Feed the Planet, Energy for Life’ (era il claim di Expo), deve essere fatta con prodotti di qualità e di stagione. Ho scritto anni fa le dieci pillole della cucina POP. Diventando la cucina accessibile a tutti si può fare veramente anche cultura a tavola.

Foto © Giovanni Gastel, Beppe Raso